Ruvo, 13 aprile 2012
Ucciso in una rapina Giuseppe di Terlizzi, 40 anni, per tutti semplicemente Pino
Ieri alle 21,20 nel suo negozio in Corso Piave
Mia moglie era stata lì poche ore prima, a far la spesa come al solito. Lui, affabile come sempre, le ha detto: “ieri ti ho pensata“. Ieri era giovedì, e alla domanda di mia moglie aveva risposto che no, sarebbe andato a giocare a pallone. Quindi il negozio sarebbe stato chiuso. Poi ci aveva ripensato ed aveva aperto. Ma mia moglie ovviamente non era passata.
Per questo l'”aveva pensata”. Anche se non è certo una spendacciona. Ma Pino era così. Amava il suo lavoro e lo faceva con passione, con interesse. Si ricordava perfettamente ogni dettaglio, il tipo di pane per il nonno, quello per me, quello per i bambini. Ed era così anche per gli altri.
Non vedeva il prodotto. Vedeva il cliente. E se anche ti aveva venduto solo mezzo chilo di pane, sapeva apprezzarlo. Perché voleva dire conservare il cliente. Farlo tornare. Era attento all’incasso. Ma non tanto da perdere di vista chi glielo portava, come spesso accade.
Coltivava, i suoi clienti. Con una metodicità e un savoir faire da cui molti colleghi commercianti (non solo di salumeria) avrebbero da imparare. Col sorriso e col buonumore, sempre. Sapeva il fatto suo. Sapeva che se non compri oggi, ma vieni trattato bene, comprerai domani. Una lezione semplice, ma forse difficile per quelli che, quando entri nel loro negozio, sembra ti stiano facendo un favore ad ascoltarti.
Viene quasi da dire: “sono sempre i migliori che se ne vanno”. Ma stasera non è tempo di frasi fatte.
Pino era il nostro salumiere. Lo conoscevamo tutti. E soprattutto lui conosceva noi, come tutti i suoi clienti. Era praticamente uno di famiglia. Mia moglie, sconvolta anche più di me alla notizia, ha ripercorso, come si fa, tutti i momenti dell’ultimo incontro. E, col retropensiero che non smette mai di complicarci la vita, ricorda di essere stata distratta da altri avventori, dalle normali chiacchiere, e di essere uscita dal negozio sovrappensiero. Pochi metri dopo si è fermata a pensare: “ma io non ho salutato Pino“. Ora, a posteriori, quella piccola cosa le sembra quasi un presentimento. E sono sicuro che se la lasciassi ancora ad elucubrarci sopra, finirebbe per colpevolizzarsi in qualche modo. E di che cosa, poi?
Così le ordino affettuosamente di piantarla e di andare a letto dalla bambina. Ma stanotte nessuno avrà una buona nottata.
Un ottimo gastronomo. E un grandissimo venditore. L’unico che riusciva a convincermi a prendere qualcosa che non avevo minimamente intenzione di prendere, una ricottina o un’altra “specialità”, semplicemente scegliendo la parola giusta, l’aggettivo appropriato. Un pubblicitario nato.
E adesso è lì, nella sua salumeria (o gastronomia come preferiva chiamarla perché era ben conscio del potere delle parole). Steso da qualche parte in una pozzanghera di sangue, come ha scritto nella fretta, emozionato, il sito Ruvodipugliaweb, cui va tutto il merito dello scoop, con l’amarezza della terribile notizia.
La grande salumeria ad angolo, a quattro ingressi, è quasi persa nella folla dei cittadini riunitasi spontaneamente. Una folla di ombrelli, di gambe che saltellano in laghi d’acqua, sotto una pioggia martellante che non ha alcuna voglia di smettere. Lampeggianti di polizia, carabinieri e vigili urbani. Un’ambulanza. Il grido muto delle transennature a strisce di plastica bianca e rossa. I segni di un’apocalisse che si è abbattuta sulla città “tranquilla” per definizione.
Arriva una troupe di chissà quale tv, la telecamera nascosta in una specie di pannolone per proteggerla dalla pioggia. Si sentono delle grida, escono tre persone. Sono i suoceri di Pino, la signora si dispera, comprensibilmente.
E suo marito, Vito, l’uomo granitico che conosciamo bene e di cui abbiamo stima, un muratore che ha tirato su palazzi senza battere ciglio – che mi ricordo ancora fare dei lavori in casa nostra con un’energia e uno scrupolo straordinari – Vito sorregge la moglie pur essendo egli stesso spezzato e in lacrime. Il terzo uomo lo vedo solo di spalle ma è con ogni probabilità Vito Ottombrini, il Sindaco, che abbraccia e sorregge l’uomo che ha il suo stesso nome.
E suo marito, Vito, l’uomo granitico che conosciamo bene e di cui abbiamo stima, un muratore che ha tirato su palazzi senza battere ciglio – che mi ricordo ancora fare dei lavori in casa nostra con un’energia e uno scrupolo straordinari – Vito sorregge la moglie pur essendo egli stesso spezzato e in lacrime. Il terzo uomo lo vedo solo di spalle ma è con ogni probabilità Vito Ottombrini, il Sindaco, che abbraccia e sorregge l’uomo che ha il suo stesso nome.
La folla mormora, cerca spiegazioni, le fornisce se ne ha. Da una signora ascolto la dinamica. Quattro ragazzi, due che fanno il palo, due entrano. Quasi le nove e mezza. L’orario ideale. Tutto l’incasso e probabilmente nessun cliente tra i piedi. E poi? Cos’è successo poi?
Quale oscuro sortilegio, o quale destino cieco ha trasformato trecento euro di incasso in una pozza di sangue?
E’ la folla stessa a darsi una risposta, o a provarci. Un ragazzo di fianco azzarda quello che probabilmente molti pensano: avrà reagito. E aggiunge: eh, in quelle occasioni non si dovrebbe mai reagire.
Inevitabili poi le voci su ciò che si dovrebbe fare a quei quattro, dovessero prenderli.
Inevitabili poi le voci su ciò che si dovrebbe fare a quei quattro, dovessero prenderli.
Ogni tanto, ritmicamente, dalla folla si alza una voce (diverse voci, a distanza), perché non c’è lavoro, siccome non c’è lavoro. Ma non afferro il nesso. Non capisco se è una giustificazione, o una crudele ironia.
Rimango intontito sotto la pioggia, in cerca di una reazione ordinata. Mentre sento montare un inconfondibile mal di stomaco. Come tutti, devo ancora pienamente realizzare che Pino non c’è più.
Non scatto foto. Il lettore mi perdonerà. Non sono in grado. Oggi l’osservatore è parte coinvolta. Non riesco a smettere di pensare alla ragazza che ho visto tante volte alla cassa, e che ora mi pare sperduta fuori dalla seconda porticina laterale, chiusa. Come la prima porticina. Come la grande porta sul Corso. Sbarrata. Ma è lì in fondo, nell’ultima porticina laterale, l’unica ancora aperta. E’ lì, tra un continuo viavai di carabinieri e polizia, con altri agenti e vigili schierati di fronte, sul minuscolo marciapiedi, con intorno la folla composta e tumultuante, silenziosa e borbottante, attonita e incredula – è lì che traspare la lucina al neon dell’irreparabile.
Sono vicino all’auto di Pino, parcheggiata proprio all’angolo della salumeria, col muso piuttosto sporgente su Corso Piave. Chissà quante volte nella serata si sarà chiesto se non era il caso di andare a spostarla in posizione più regolare – senza neanche poter lontanamente immaginare che quel volante non l’avrebbe più toccato.
Che la sua vita sarebbe finita lì, nello stanzino arretrato vicino al banco frigo. Che la sua bella salumeria, il gioiello redditizio che aveva messo su con tanti sacrifici e tante soddisfazioni, sarebbe diventato la sua tomba.
Che la sua giovane sposa non l’avrebbe più visto gioviale e soddisfatto come sempre. E che avrebbe dovuto imparare come e in che modo spiegare ai loro due bambini che il loro papà non era tornato, che non sarebbe tornato più – che non avrebbe potuto più raccontare loro una bella favola, o semplicemente la sua giornata. Che non sarebbe più successo. Che non succederà.
Devo fare qualcosa contro quest’angoscia. Mi muovo. Continua ad arrivare gente. Sono le 23,30. La pioggia martella l’ombrello. Giro verso l’altro lato della strada, intorno all’isolato. Stessa scena. Capannelli aggrovigliati di corpi e di ombrelli, vocìo, ipotesi, domande, risposte provvisorie perché nessuno sa, nessuno può avvicinarsi. Si va a tentoni, come sempre.
Sull’altro marciapiedi l’assessore al commercio, Michele Scardigno. E’ prevedibile che questa tragedia sarà anche una bella complicazione politica. E si può temere, se dovesse emergere una qualche connotazione dei rapinatori, che si possa scatenare un’ondata xenofoba. Ma per la verità, in questo momento, è più il cervello che galoppa per le solite piste.
Non ho voglia di starlo a sentire. Troppo pochi gli elementi a disposizione, per ora. E soprattutto, troppo più importante che Pino non c’è più.
Che tutto quello che è rimasto è un’auto senza più guidatore. Sotto una pioggia incessante. Una moglie senza compagno. Due figli senza padre. Quattro disperati senza futuro. Ed una città senza più pace.
mario albrizio
Ultim’ora. La ricostruzione della rapina. Sono quasi le nove e mezza di sera. La salumeria è chiusa. Ma l’ultima porticina dell’ingresso laterale è ancora accesa. L’ultimo cliente, una signora, esce. Sulla porta incrocia dei giovani, poco più che ragazzini. Pare, col passamontagna.
Dalla sua ricostruzione sappiamo che li ha sentiti parlare. Sono italiani. Con l’accento “pugliese”. Due rimangono fuori a controllare la situazione. Gli altri entrano.
Pino probabilmente si accinge a togliersi il camice, forse dare una sistemata veloce e via a casa, dalla famiglia. Dalla moglie. Dai bambini.
La voce alterata del ragazzo che grida alla rapina. Molto probabilmente è drogato. Gli italiani, ci spiegano, prima delle rapine si drogano, di solito cocaina. Gli extracomunitari invece bevono.
Ma questa sottigliezza non serve a Pino, che forse fa un movimento inconsulto, forse accenna a una reazione. E’ un ragazzone forte e coraggioso, guadagna il suo incasso con lunghe e stressanti giornate, ancora non finite a tarda ora: ci tiene a difendersi e vede di avere davanti dei ragazzini forse più impauriti di lui. Probabilmente alza la voce. Forse prende un coltello per sottolineare di stare facendo sul serio.
Il ragazzo con la pistola perde la testa e spara. Un solo colpo che vola al di là del bancone e centra Pino in pieno viso. Il ragazzo butta via istintivamente l’arma. Il riflesso inconscio, inconsulto, istintivo di chi rifiuta quello che ha fatto. Aggiornamento: l’autopsia ha stabilito che il colpo è stato sparato da dietro la nuca, in direzione alto-basso. Il che, data anche la statura di Pino, fa supporre una colluttazione tra la vittima e uno dei due aggressori, per terra o comunque in posizione sottomessa, mentre l’altro aggressore si portava alle spalle di Pino sparando da distanza ravvicinata. Le pistole dunque erano due (pare), una modificata che si è rotta ed è stata lasciata sul posto, l’altra, purtroppo, abbastanza in buono stato da poter sparare.
Ma tecnicamente un errore grave. Una banda di disperati dilettanti, mi assicurano. Un professionista avrebbe girato intorno al bancone e avrebbe sparato alle gambe.
Ora quella pistola parla di loro. Così come le immagini delle telecamere, che gli inquirenti stanno vagliando. E le risultanze dell’autopsia, prevista al Policlinico. Tutte piste destinate ad incrociarsi e, con ogni probabilità, a indicare dei nomi e delle responsabilità.
Da qualche parte ci sono altre quattro famiglie che stanno per essere devastate. Semmai qualcuno di quei ragazzi legga queste pagine, il nostro appello è uno solo: costituitevi. Avete scelto il crimine. Ora accettate la pena.