Un chiaro successo per il primo degli incontri della rassegna Le Danzatrici, organizzata da Giulio De Leo.
Nonostante l’ora infelice (le 17 di un sabato) la sala conferenze dei Domenicani è sufficientemente affollata di un pubblico attento e partecipe.
Giulio De Leo spiega che la danza non è mai unica, ma solo una delle infinite danze possibili, che altri, altrove, o anche sullo stesso palcoscenico in tempi diversi, potrebbero interpretare diversamente.
Un discorso condivisibile, quasi banale.
Ma, pochi minuti dopo, la storia dell’affresco delle Danzatrici, sapientemente narrata da Claudia Pecoraro, archeologa e ricercatrice in museologia, Roma – come recita la locandina – è una storia che gronda unicità da ogni parola, da ogni immagine, e tiene tutti col fiato sospeso.
A cominciare dalla sua scoperta, nel 1833, proprio ai margini dell’attuale Piazza Matteotti, subito fuori l’area delle (già allora quasi scomparse) mura medievali, ad opera di spregiudicati cacciatori di tesori antichi, che per poter meglio piazzare questo capolavoro poco maneggevole pensarono bene, come prima cosa, di farlo a pezzi a scalpellate.
Chissà se in un altro mondo, se ce n’è uno che assomigli a quello che ci è stato raccontato dall’infanzia, a questi figuri toccherà più la gloria della scoperta o l’eterno martirio per la distruzione vergognosa.
Ne mancano ancora dei pezzi, in giro chissà dove nel mondo, mentre quelli residui sono custoditi al Museo Archeologico di Napoli.
Ma i pezzi residui, alcuni dei quali splendidamente riportati ai colori verosimilmente originali, raccontano di per sé una storia inimitabile. Una storia di danza come segno di passaggio, di accompagnamento non alla morte ma a una nuova vita.
Il rito, e quello delle Danzatrici senz’altro lo è – il rito, dice Giulio De Leo, è un modo con cui gli uomini cercano di dare senso a vuoti di senso, di calmare l’angoscia di fronte all’ignoto.
Si può aggiungere che il rito, se può servire a svariati altri significati (per esempio quello politico-istituzionale – o semplicemente quello di appartenenza alla comunità) in questo caso ha dei chiari risvolti metafisici, e sembra attestare la fede in un al-di-là che superi l’apparenza della morte con una nuova vita, probabilmente migliore, poiché la si raggiunge con la danza, con l’intreccio inscindibile delle vite.
In questo senso il defunto è solo uno che ha lasciato il cerchio magico della danza, (la “danza intrecciata”, perché i destini di tutti sono intrecciati, in una comunità), ma solo per ricongiungersi a un altro cerchio magico, dall’altra parte, al quale si uniranno via via coloro che sono rimasti da questa parte, ancora avvinti in questo, cerchio. O in questa parte dello stesso cerchio senza fine.
La Danza, insomma, non finisce. Ma rinasce. Attraversa il tempo e lo spazio, rende tutto presente, tutto danzante, tutto vivo.
Le Danzatrici raccontano questo, da 2.500 anni: la Storia della Vita. Della Vita che muore per rinascere. Per ri-Vivere.
Che meraviglia, attraverso la ricostruzione del pittore Vincenzo Cantatore, poter vedere la tomba nel suo stato originale prima che fosse smantellata dai cacciatori senza scrupoli di reperti inestimabili. Che uomo privilegiato, e che fortuna che almeno il suo acquerello ci sia giunto, a darci un’idea dello splendore del manufatto originario:
come era al momento del ritrovamento, 1833-1836, Molfetta, Seminario Reg.
Perché quel dipinto ci aiuta a ricostruire mentalmente l’incredibile fascino che emana tutt’ora dalla vicenda della Vita e della Morte narrata dalle Danzatrici.
La semicamera funebre con lo scheletro e gli oggetti utili per il Grande Passaggio, secondo le credenze del tempo. E tutt’intorno il dispiegamento di donne e uomini intrecciati che non piangono né rimpiangono, ma danzano, suonano e cantano: cioè accompagnano. Verso una vita migliore?
Ma appena ci si riprende dall’incanto della narrazione, non si può fare a meno di pensare che secondo il Cnr ancora il 99% del patrimonio archeologico di questa cittadina unica al mondo è ancora ignoto.
Quali altre meraviglie ci aspettano, magari proprio lì, a due passi da noi?
Una domanda cruciale, a cui questa Città deve trovare il modo di rispondere seriamente. Finalmente.