La povertà nell’epoca dello spreco istituzionale
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Un uomo sui settant’anni, certamente italiano, ruvese, vestito con decoro, pantaloni lunghi e camicia celestina dentro la cintura, pulito, dall’aria normalissima.
Il padre o il nonno classico di uno qualunque dei nostri Lettori.
Sembra un cliente come tanti, un tranquillo pensionato appena arrivato nell’area del fruttivendolo, ma improvvisamente alza il coperchio di un cassonetto per l’umido.
Circa le 20. Stasera. (Ieri per chi legge, ndr).
Potrebbe essere un cittadino che fa la differenziata.
Ma allora perché le sue due buste sono vuote?
Lui non segue certamente il filo dei miei pensieri e ficca la testa dentro, calandosi il coperchio sulla nuca, per mantenerlo lasciandosi le mani libere, ma anche per nascondersi un po’, nella sera incipiente.
E comincia a cercare. Qualcosa con cui riempire quelle buste.
Il primo istinto è avvicinarsi e chiedere. Ma è troppo dignitoso. Lo umilierei.
Ecco, senza alcuna polemica, ma vorrei sapere se i servizi sociali sanno di queste cose. Se fanno qualcosa. E, se non fanno, perché non la fanno.
Inutile chiedere a Palazzo Avitaja, il regno dell’omertà.
Lo chiedo a voi. Gli unici di cui mi fido.
Come la vedete?
Ed è possibile che nel 2015 siamo tornati alla fame? La fame vera, quella che fa perdere ogni pudore?
Due anni fa abbiamo proposto un taglio radicale agli sprechi, e che si risparmiasse sulle inutili festaiole e sullo zinnannà, allestendo un piano speciale di contrasto alla povertà di almeno 100.000 euro annuali.
Nessuno ha sentito a Palazzo dei Sordi Avitaia. Ed eccoci qui. Due anni dopo. Ad aver scialacquato in stupidaggini, sprechi e in sventramenti urbanistici magari a costo di tagliare sul sociale, anziché aumentarlo con fondi straordinari.