Il balcone che si apre per la prima volta al pubblico è come un occhio nuovo sul mondo, con la sua vista inedita, principesca: quella dei signori di un tempo, quando il Castello di cui la torre è quasi l’unico avanzo imponeva la sua vista, e il suo peso, alla Città e al territorio. La vista che deve aver avuto tante volte l’Armagnac, o il La Palice, e chissà quanti altri “signori”, nobili, prelati, guerrieri o vessatori che la Storia ha re-inghiottito.
Una vista spettacolare sul Comune e sulla Piazza deturpata, abbattuta e distrutta per costruire l’arido monumento al nulla e alla desolazione. Secoli cancellati dalla barbarie più mostruosa.
E mentre il balcone principesco, in realtà una piccola terrazza, si riempie di invitati che assistono al discoprimento e alla benedizione del logo della Rondine che porta nel becco musica e melodia – è impossibile non pensare alle tante volte che Nicola Cesareo, l’organizzatore della serata insieme alla Fondazione dedicata al nipote Angelo, mi ha raccontato dello sgomento della madre per la distruzione dell’identità di quella Piazza per lei (come per lui, e per tante migliaia di Cittadini) così familiare e amata.
La Piazza-lager che ne è venuta fuori – come la chiama il prof. Cesareo – è quanto di più storicamente avulso e alienante. Una ferita aperta difficile persino da guardare. Un vuoto di cosmica desolazione a cui è impossibile abituarsi – figuriamoci rassegnarsi – mentre i frati della comunità Betania benedicono il logo della Rondine sul balcone maestoso.
Il Sindaco, arrivato in lievissimo ritardo, rimane discretamente nel salone. Ma più tardi sotto lo splendido crocicchio di scalinate dell’atrio medievale, mentre la serata comincia a salire tra deboli refoli che rendono piacevole la temperatura altrimenti ancora afosa, prende la scena e la parola.
Emozionato e imbarazzato, visibilmente commosso e memore del ricordo pasoliniano offerto personalmente dall’ospite Margherita Caruso, che recitò nella parte della Madonna giovane nel Vangelo pasoliniano – Pasquale Chieco riprende il discorso della Bellezza come salvezza del mondo, citando ovviamente anche Peppino Impastato.
“Far crescere i Cittadini nella Bellezza è la migliore educazione civile“.
E insiste sull’importanza degli artisti. Del loro sguardo sul mondo. Sull’efficacia terapeutica del Vangelo pasoliniano per la sopravvivenza dei Sassi di Matera, “altrimenti destinati alla distruzione per costruirvi dei casermoni“, con un irreparabile “danno storico, di bellezza e identità“.
E di nuovo, inevitabilmente, la mente vola. Chissà se sarebbe bastato un Pasolini a salvare dalla distruzione la memoria vitale della Piazza e della Città. E non secondariamente la sua Democrazia. Quasi impossibile, in realtà, in un contesto dominato dalla paura di esporsi e di contrariare quelli del palazzo, da cui ci si illude sempre la speranza di un aiuto, un contributo, uno scambio più o meno vergognoso sotterraneo o almeno una “pedata” per sistemare qualche scialbo bamboccio di famiglia o di letto o di partito.
O forse sarebbe stato già più che sufficiente un Sindaco all’altezza, come quello di stasera. E un’amministrazione capace di percepire il valore della Bellezza, della Storia, dell’Identità.
Chissà.
Intanto la serata è alta, nel pieno della sua profondità. E la piccola folla seduta e in piedi che gremisce il Giardino delle Romanze, ora tranquilla dopo essere stata sbattuta e rivoltata nell’anima dalla dialettica travolgente e spezzata, profonda e priva di fronzoli di Nicola Cesareo che parla della “straziante bellezza”, tanto più bella e straziante quanto più destinata ad essere perduta; la piccola folla poi rifocillata nel concetto di bellezza privata che si fa pubblica, condivisa e perciò più splendente (e più straziante); “più pubblica e in questo senso politica“… Concetto condiviso dal Sindaco: “la bellezza pubblica è più importante di quella privata e chiusa“. Ma tutto questo affonda nelle profondità di ognuno, per ricomparire chissà quando, chissà dopo quale lavoro o lavorìo di fertilizzazione interiore, mentre la serata ormai al suo zenit incontra la notte che scende.
La piccola folla può finalmente immergersi, così nutrita, nel godimento della perfetta copertura musicale e operistica (qui i dati e i nomi), nel piano che ondeggia, nel flauto che sale, nelle voci possente e delicata, amabile o gorgheggiante, nel Gualtiero che ama o nel Casta Diva che sublime si alza e arriva a toccare il cielo nero.
Il pubblico adorante e una Città che rompe gli steccati e costruisce ponti tra pubblico e privato – in un nuovo spirito di condivisione che è prodromico e indispensabile ad ogni rinascita. Pubblica e privata. Per ora è solo un miracolo circoscritto, perso in quest’angolo incantato. Domani potrebbe essere la cifra di un’intera Città che nella contaminazione positiva, virtuosa di pubblico e privato (il contrario esatto della contaminazione negativa e viziosa che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni) ritrova la sua via.
O almeno è quello che ci piace vedere.
Qui, tra stelle nascoste e atri illuminati, appena sopra il celeste languido delle monofore medievali che puntano il cielo, ci si aspetta da un momento all’altro di sentire davvero quel battito d’ali di rondine, mentre le note e le voci, queste figlie dell’anima, scolpiscono la notte.