Se la politica nazionale somiglia a un gigantesco processo kafkiano in cui tutti sono vicendevolmente vittime e carnefici, imputati e accusatori – e tutti vivono male (e i cittadini peggio); la situazione del Pdl è piuttosto di tipo freudiano, con lo sfuggente Alfano nella parte del figlioccio che prova a “uccidere” simbolicamente il padre-padrone a cui tutto deve.
Naturalmente, col suo consenso.
Il Pdl infatti è il partito dei paradossi. Morto politicamente Berlusconi, il partito si ritrova
a dover contare su intere generazioni di gregari e di yesmen, cresciuti all’ombra del capo e abituati ad assecondarne i desideri, più che a cercare soluzioni ai problemi del Paese.
Un partito di colonnelli senza più generale. Un Pdl ridotto a Pd. E senza che nessuno abbia minimamente i “carismi” berlusconiani: la capacità organizzativa, il potere finanziario e, sopratutto, il collante televisivo.
Insomma il Pdl si trova nel vortice di un paradosso per cui non può più puntare su Berlusconi, ma neanche lontanamente può farne a meno.
Così l’ex partito di plastica si trova nella necessità di diventare partito vero, o di sparire. In un’atmosfera surreale, un po’ lotta tra bande un po’ voglia d’altro, un po’ spartirsi le spoglie del mastodontico cadavere un po’ ostinarsi a rianimarlo.
Ma qui in provincia la musica è diversa; si è abituati (a destra come al centro o a sinistra) all’obbedienza e all’appartenenza, ad attendere ordini dall’alto, non a pensare all’oltre e al dopo. E in questa città in particolare, questa bella addormentata rimasta chiusa in cabina nella nave che affonda – i pidiellini sono più che altrove combattivi e motivati, anche se ovviamente non sono tutte rose.
Pesa ancora la lacerazione elettorale, con quello che ne è seguito. Al punto che le due liste concorrenti, e per le quali si voterà domenica prossima a Bari (pullman gratuito da piazza Bovio alle 9.30, alle 16.30 ed alle 18.30) hanno ciascuna un esponente delle due vecchie anime del Pdl che si sono straziate fino a riuscire a perdere le elezioni comunali che sulla carta avrebbero stravinto se fossero state unite.
Stasera, 22 febbraio, all’hotel Talos si riunisce la componente fittiana, che presenta Antonio Di Staso come capolista – e come rappresentante cittadino Giovanni Mazzone, giovane ma storico leader prima Forza Italia poi Pdl.
La sala è relativamente piccola ma gremita, circa un centinaio di persone tra cui il gotha dell’imprenditoria locale e molti militanti “storici”. Un grande senso di appartenenza e di identità. Le classiche cose che all’osservatore imparziale fanno un po’ specie, ma che costituiscono (col loro inevitabile misto di autenticità e ipocrisia) legami insostituibili nelle forze politiche finora conosciute.
C’è nelle parole captate fuori-onda una forte rivalità, un grande orgoglio per i risultati raggiunti e il vanto di essere pidiellini doc, a differenza delle forze corsare che si sono aggregate all’ultimo minuto per tentare di prendere il controllo del partito, rinnegando patti già scritti.
Niente di nuovo sul fronte elettorale, si dirà. La stessa povertà politica nazionale che a volte, in periferia, si degrada a squallore.
Ma qui, stasera, la musica è diversa. Bisogna far squillare le trombe e chiamare tutti a raccolta. Il Pdl diventa grande e vuol fare il partito vero. O almeno ci prova.
Bisogna sostenere Giovanni Mazzone e qui il coro è unanime, per la simpatia che il noto imprenditore ispira anche tra la gente comune, per le sue capacità manageriali (i lavori della sua Azienda arrivano in mezzo mondo) ma soprattutto per la sua capacità di guida e per la lunga e coerente militanza nello stesso schieramento, contrariamente all’avversario di sempre, campione mondiale in cambi di casacca e qui francamente detestato per lo scherzetto delle scorse amministrative, cui si attribuisce tutta la responsabilità di una sconfitta davvero macroscopica.
Tutti, dal coordinatore cittadino Rocco Lamonarca allo stesso Mazzone, dal presidente del consiglio comunale Franco Catalano al consigliere Claudio Cantatore prendono la parola per esortare al voto e alla compattezza degli intenti. Uniti si vince.
Il capolista Antonio Di Staso si esibisce in un puro esercizio di politichese d’altri tempi, peraltro imposto dalle circostanze, dal momento che è contemporaneamente capo di una delle due liste concorrenti e coordinatore provinciale (quindi teoricamente super partes). Per questo chiama tutti “amici”, quelli che sono con lui, quelli che non lo sono e quelli che gli sono contro. La rivalità attuale, dice, non deve inficiare un progetto sostanzialmente unitario, l’unico che può riportare il partito all’antica forza.
Per tutti è un coro comune: basta con le scelte calate dall’alto. La parola passi realmente alla base. “Aspettavamo da tre anni questo momento, e ora è arrivato. E’ un’occasione che non possiamo sprecare“, dice l’eurodeputato Silvestri.
Concetti ribaditi dal candidato vice-coordinatore Damascelli, vice-sindaco uscente di Bitonto, un ragazzo apparentemente sulla trentina che mi consola visivamente perché è l’unico a portare la barba – come me, che così mi sento un po’ meno diverso…;-)
Anche lui è categorico: “è l’occasione che aspettavamo”. Finalmente la base del partito può “parlare”, non solo applaudire.
Ma le parole più giuste le trova forse il consigliere regionale Massimo Cassano, con la sua faccia simpatica da pugile boliviano e il suo linguaggio diretto: “è finita l’era dei raccomandati. Deve cominciare quella dei meriti, dei candidati scelti dal basso per la loro capacità di ascoltare e di rappresentare l’elettorato“.
Abbiamo i nostri dubbi. Ma se la crisi fosse servita a questo, allora ci metteremmo la firma e la considereremmo una benedizione divina. Come la peste manzoniana che umilia i malvagi e salva i buoni.
Ma la politica, si sa – e soprattutto questa politica – non è un romanzo. E il lieto fine non è affatto assicurato.
Lo abbiamo già scritto su queste pagine: un Pdl che si democratizza e diventa partito vero è una grande occasione per tutto il sistema politico italiano.
Il dubbio è se non sia già troppo tardi. Se non si cerchi di rianimare il paziente quando è ormai morto.
Alla fine della serata si registra il malcontento di qualcuna delle donne in sala, soprattutto una, giovane, motivata e aggressiva al punto giusto: che fine hanno fatto le donne? Perché sì, tra i magnifici quindici candidati non ce n’è neanche una.
Personalmente sono contrario alle riserve indiane, alle quote rosa e a tutta questa chincaglieria pseudo-democratica che spesso serve da pretesto per candidare figlie e mogli-di (per non dire altro).
La via maestra sarebbe che le donne si interessino di più alla Politica, imponendosi con la semplice forza dei numeri. Nelle more, valorizzare quelle donne che più si impegnano nei partiti (specie se danno prova di autonomia e non sono figlie e amanti di nessuno) può essere una buona via di mezzo. Ma a Bari forse la notizia non è arrivata. Troppo occupati a “dare ordini”, forse, per aver tempo di ascoltare, e di fiutare un vento che cambia inesorabilmente.
La stessa (scarsa) “attenzione” che ha ridicolizzato e riempito di vergogna il gruppo dirigente barese alle scorse amministrative, quando hanno appoggiato prima il candidato ufficiale Catalano e poi sono disinvoltamente saltati sul carro del candidato “traditore” e scissionista. Così, da un giorno all’altro. Saltatori professionali del nulla. Arrampicatori di comizi e navigatori di scoglio. Se la base avesse veramente la parola, di quella pattuglia vergognosa di dirigenti non ne resterebbe in piedi uno.
Torniamo a casa con qualche buona certezza e il solito gigantesco fardello di dubbi.
Ha scritto Gramsci che il male italiano è non capire il valore del dominio della Legge, della Regola, vista solo come mezzo per favorire gli amici e danneggiare i nemici, in un’eterna guerra tra bande.
Mentre l’Europa sbanda, l’Italia annaspa, la Grecia affonda, la guerra tra bande non conosce tregua – il dubbio è se stare in questa parte riparata e disperata del Titanic sia un privilegio o l’ultima beffa.
La certezza è che le carte si stanno rimescolando. Che mentre la Sinistra oscilla dal centralismo burocratico plantigrado del Pd al leaderismo messianico (categoria teoricamente di destra) vendoliano-dipietrista; la Destra molla il leaderismo de-noantri e, sia pure obtorto collo, punta sulle primarie e su un insperato quanto sorprendente e vivificante processo di democratizzazione interna.
Un balsamo per tutto il quadro politico nazionale, se non l’uccideranno nella culla come quasi sempre avviene in questo Paese (qualcuno ricorda Alleanza Democratica?).
Perché se il Pdl prende consistenza di partito e si democratizza, anche il centrosinistra dovrà rilanciare sul piano della democratizzazione interna, e forse si aprirà un circolo virtuoso che è l’unica cosa che può davvero salvare il Paese.
Speriamo di sì. Speriamo in questa gente che ancora ci crede. Speriamo in Giovanni Mazzone e nei Mille che come lui ci stanno mettendo la faccia. Che sia l’inizio di un lungo e reale rinnovamento.
Forse l’Italia può davvero ripartire da qui, da queste primarie insperate. Così le cose su cui insistiamo da quasi vent’anni (le primarie, la democratizzazione, la sburocratizzazione, la costituzionalizzazione dei partiti) non saranno state dette invano.