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Esco di casa e dopo pochi metri sono su Corso Piave. Le 16 e qualche minuto. Poco sole tra i palazzi, ma metto comunque gli occhialini neri. So già che sarà dura.
Corso Piave, l’arteria che collega idealmente la Cattedrale all’Ospedale – e, con un po’ di fantasia, continuando dritto in linea d’aria, al Cimitero – è vuota e deserta. Insolitamente vuota d’auto, con i vigili a far sgombrare i ritardatari. E deserta di persone, che so bene dove ritroverò.
Sono in ritardo, ma per sacre ragioni di logistica familiare. Mia moglie è già lì dalle 15. Leggeranno (pardon, avranno già letto) dei pensieri per Pino da parte dei clienti.
Ma sì, che hai capito bene, Lettore. Pensieri dei clienti per il loro negoziante. Clienti: non (solo) amici e parenti. Suona un po’ insolito, vero? Ma per chi lo ha conosciuto non è strano per nulla.
Solo quella salumeria chiusa e coperta di fiori, biglietti, manifestini; riempita di vita compressa e muta, stona un po’ con la solitudine lunare del Corso. Lo scorro e improvvisamente penso che sto facendo lo stesso percorso degli assassini. Certo, con meno concitazione. Il vuoto della strada, resa ancora più larga dall’assenza di veicoli, finisce per assorbirti e restituisce una strana sensazione di potere, un po’ come sentirsi il re della montagna, semplicemente perché non c’è nessuno a contenderti il posto. Dev’essere così che ci si sente, imbottiti di cocaina.
Ma dura un attimo soltanto. Perché da Corso Jatta ecco svoltare un’inconfondibile gigantesca station wagon blu. Il carro funebre. Andrà a piazzarsi vicino alla salumeria di Pino, dove, a fine messa e corteo, ne accoglierà il feretro.
Imbocco appena Via Cattedrale e già si mette male. Urla e pianti. Ma poi mi dico, non può essere. Troppo distanti. E troppo composto il dolore finora, per esplodere a quel modo. Infatti è solo un bimbino incapricciato tra le braccia del padre. Non sa ancora che fortuna, avercene uno.
Proseguo sul percorso dei fuggitivi (che ancora una volta coincide, all’incontrario, con quello che va a Pino) e passo davanti alla pizzeria vicino a cui hanno parcheggiato. La chiesa del Purgatorio. Pochi metri ancora e poi stop. Non si prosegue più perché la piazza della Cattedrale è gremita di gente e un’ambulanza presidia l’inizio della via.
Poco male. Mi fermo vicino al muso del furgone biancorossoarancione e saluto qualche amico.
Visi tesi. Tristi. Scuri. Ci si scambia saluti fatti di sguardi duri. Nessuno vuole che si pensi che sta sottovalutando la gravità del momento. La voce degli officianti il rito funebre cattolico è diffusa dagli altoparlanti esterni. Mi guardo intorno e vedo un sacco di gente con gli occhiali neri, nonostante la piazza completamente in ombra. Nessuno accenna minimamente a toglierli. E so benissimo perché. Come dice il poeta, ci si riconosce al segno…
La messa scorre lenta, col suo linguaggio liturgico medievale e tridentino, sempre più incomprensibile a un mondo che cambia alla svelta. Così siamo in tanti a lasciarci distrarre dal respiro che sembra salire da questa piazza spettacolare, fatta di volumi e geometrie che si incrociano con tale varia armonia che persino il mostro edilizio degli anni ’70 sembra sia sul punto di adeguarsi al romanico.
Io mi lascio incantare dalla bellezza della facciata, da quelle spalle stanche, ricurve, da contadino umile – non certo la maestosità squadrata di Notre Dame de Paris, né quella ardita del Duomo di Milano o la svettante sensualità della cattedrale di Trani – un gioiello semplice e prezioso, non di quelli che si ostentano alle feste, ma di quelli che si tengono gelosamente custoditi, e si tramandano di generazione in generazione.
Una bella cattedrale alla buona, all’occhio di qualunque storico dell’architettura. La più bella del mondo, agli occhi di chi è nato qui.
Dopo il recente restauro la facciata sembra così liscia che lo sguardo vi scivola, e incontra il cielo. O meglio, uno scenario meraviglioso, di un celeste limpido, con le nuvole che scorrono spinte dalla brezza, ma che sembrano quasi un effetto elettronico al chromakey. Uno scenario mobile che rende quella bellezza dinamica, irraggiungibile e viva. Lassù, gli scenografi ci sanno fare.
Lo sguardo ridiscende e incontra il Cristo trionfante, il nocchiero di questa corazzata dello spirito. Poi il Sedente misterioso. Il magnifico rosone e giù scivolando, fino a reincontrare la folla. L’anima sperduta e raccolta della città.
Poi la brezza diventa vento, le nuvole vengono spinte con più forza verso il retro e la cuspide ma quello che si vede è l’effetto contrario. Lo spettacolo fantastico di una cattedrale che accelera il suo viaggio tra le nuvole, su un percorso invisibile, e così per qualche attimo tutto è così chiaro…
La chiesa (assemblea) dei cristiani, abbracciata dalla gigantesca chiesa (assemblea) civile, dei cittadini, della piazza, dei balconi gremiti, dei fotografi e operatori tv che si sono infilati in alto a cercare il posto migliore per inquadrare questo volo.
Il volo di una piccola, bellissima chiesa religiosa in una grande splendida chiesa del mondo, l’assemblea di questi esseri così strani e singolari, non solo questi due o tremila ruvesi e non, persi in questo pomeriggio di dolore; ma l’assemblea ancora più grande di questi 7 miliardi (and counting) di esseri umani aggrappati al loro sassolino sparato nell’universo infinito, partiti dal nulla, carne e fame, paura e bisogni, sogni e slanci, amori e tradimenti, guerra e pace, giustizia e ingiustizia – in viaggio a velocità pazzesca forse verso il nulla, ma che intanto hanno imparato a pensare l’Assoluto. Forse, a incontrarlo. Un’astronave verso il Paradiso.
Tutti, credenti e non credenti di ogni religione, laici, atei e diversamente credenti come me. Vivi e diversamente vivi. Tutti sulla stessa Arca rotante. Tutti nello stesso viaggio. Verso la stessa meta. E, anche se le religioni sono prodotti umani, e come tutte le cose umane, imperfette; è bello però che in questo viaggio ci sia compagna la bellezza, sontuosa e magniloquente che sia, o popolare e bellissima come questa pimpante Signora di 8 secoli.
Una Signora da cui ora partono canti. E qui bisogna proprio dirlo: i tempi sono cambiati. Un tempo la Chiesa si serviva dei più grandi artisti per veicolare il suo messaggio. Tra i migliori pittori, musicisti, coristi, architetti, scultori, scrittori. Oggi la, di per sé giusta, valorizzazione delle risorse parrocchiali anche in contesti più complessi come quelli creativi, produce piuttosto effetti di sonnolenza. Testi e musiche volenterosi, ma che non sfondano il muro dell’attenzione quando escono dalla cerchia di chi le ha composte e del piccolo gruppo con cui le ha condivise.
Un appello agli artisti, perciò: alle ricche risorse inesplorate di ogni città: date il vostro contributo. E se a volte non vi piace la Chiesa istituzione, quella dei palazzi e del potere, sceglietevi un parroco in prima linea e aiutatelo con la vostra creazione di bellezza. Ne abbiamo tutti bisogno.
“Scambiatevi un segno di pace”, dice l’altoparlante. E dopo qualche attimo di esitazione in cui ci guardiamo perplessi (vale lo stesso anche se non siamo in chiesa?) con i vicini mettiamo in atto questo gesto semplice, uno dei più belli e informali (e non a caso recenti) della stanca liturgia cattolica.
Mi scuotono le parole di un canto, senza dubbio composte in buona fede, ma in cui si sfiora la blasfemia. “Ricordati Signore che siamo come i fili d’erba…”
Ricordati? Non sarà un po’ troppo?
Al suo confronto sbiadisce persino il ricordo di Paolo VI, che nel 1978, sul cadavere di Aldo Moro, mormorò quel “Signore tu non hai ascoltato la nostra preghiera” che suonava già audace.
Ma si sa, Dio guarda con più indulgenza a chi ha una fede semplice.
La messa finisce. Andiamo in pace. Ma nessuno si muove e la pace è ancora da trovare. La bara di Pino viene accolta dagli applausi, dall’abbraccio di una folla che proprio in essa, ora, si identifica. Portata a spalle sul sagrato, si inerpica sulla breve scalinata e arriva qui, all’imbocco della via, che l’ambulanza ha da qualche minuto liberato.
Vito di Bisceglie, il suocero; i parenti; il picchetto di ex bersaglieri che aiuta a ritrovare un ordine mentale, un ultimo bastione contro l’ondata emotiva che sale. La moglie, oggi vedova, disperata e piangente. E a questo punto sì, che servono gli occhiali neri, mentre si scatena il suono delle campane, a distesa, potente e incessante come nelle grandi feste o nelle grandi tragedie.
E la morte, in fondo, è sempre entrambe le cose. La festa dell’incontro con Dio e la tragedia dell’abbandono della vita terrena. Moltiplicate per mille in casi come questo.
Da qui alla bottega da salumiere è tutta una folla infinita, un fare ala per strada, un applauso continuo a ogni traversa. Fino all’uscio del civico 35, dove aspetta l’auto blu. L’unica auto blu che non si neghi a nessuno.
L’improvvisa sirena dell’autoambulanza, che oggi non può fare a meno di seguirmi ed è a due metri da me, per poco non mi stecchisce. Un malore proprio lì, alla testa del corteo, al momento del distacco. Nulla di grave. Ma qualcuno dovrebbe seriamente pensare a dotare le ambulanze di un’acustica graduale…
Torno a casa col magone ormai solito, da una settimana in qua. Ho bisogno di riprendere contatto con la realtà.
Adocchio un’arancia: il suo colore forte e allegro è quello che ci vuole. Ma prima un panino. Ho bisogno di strafare. Di staccare un po’. Apro la busta di carta e li vedo. Non sono i panini di Pino. Non lo saranno mai più.
mario albrizio
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