22 bambini morti in un colpo solo. Neanche i bombardamenti “chirurgici” riescono a tanto; neanche le stragi di soldati impazziti; persino le repressioni dei dittatori in crisi.
Da un momento all’altro l’Europa scopre che non ci sono solo i conti da far quadrare.
Il continente più avanzato del mondo (più per ragioni storiche che per meriti attuali), in una delle zone più ricche e “sviluppate”, tra il Nord Italia e la Svizzera, scopre drammaticamente quanto proteggere la vita sia immensamente più difficile che giocarla alla lotteria dei trasporti.
Trasporti pensati secondo l’imperativo economico che ci nutre e ci strozza da almeno 4 secoli: più merci, in meno tempo, uguale più profitto.
Quale sarà stata la causa del disastro o, come di diranno i media, della “disgrazia”?
Un malore improvviso del conducente? Uno scoppio improvviso del pneumatico anteriore destro?
L’unica cosa certa è che ancora oggi – mentre siamo bombardati di pubblicità di auto lussuose che fanno tutto da sole – siamo costretti a inscatolare i nostri figli in carrette pensate per portarne il più possibile – in quantità, non in sicurezza.
Perché nella società delle merci, anche la persona deve diventare merce se vuole esistere e spostarsi.
Ma fino a quando dovremo accettare di non poter più rivedere i nostri figli perché uno pneumatico ha ceduto? O perché la biologia ha avuto improvvisamente ragione della vita dell’autista?
Non dovremmo piuttosto ripartire da lì: dai nostri bambini e dalla loro (e nostra) sicurezza?
Le foto nitide; la galleria tirata a lucido; un ambiente quasi asettico, surreale – i rottami e i poveri resti sgomberati a tempo di record e gli elicotteri in transumanza vicino all’imbocco danno una visione apocalittica della nostra impreparazione – che risalta tanto più, quanto più è efficiente e organizzata.
Come una bocca gigantesca: 28 vite in un solo morso |
Siamo preparatissimi sì, ma per le merci.
Una società al contrario, costruita a rovescio, in nome dell’emergenza e del profitto immediato. Del portafogli gonfio che schiaccia e opprime il cuore.
In quest’Europa devastata 22 bambini non torneranno mai più a casa, vivi. E con loro 6 adulti, che li accompagneranno in questo nuovo, lungo viaggio verso l’ignoto – speriamo, verso un mondo migliore.
Non cresceranno qui. Non sapranno mai, forse, se l’Europa è uscita dalla crisi, o se c’è ancora un’Europa.
Non avranno amori e delusioni. Non faranno carriera e non riceveranno sussidi. Non produrranno idee innovative e non compreranno pantofole.
22 speranze in meno. O 28, perché come si dice la speranza è l’ultima a morire. Ma muore.
Muore perché vive in una società accecata. Muore perché bisogna fare in fretta, non bene.
Muore perché è di questo che si ciba questa “vita”. Di queste faccine che resteranno giovani per sempre. Di questi media che ci mangeranno su e vi si rivoltoleranno fino alla prossima tragedia.
Perché tutto continuerà come prima. Perché prevenire è ancora molto al di là dello sguardo di una società passata dalla fame all’indigestione, ma sempre centrata sulla propria pancia.
Perché la Storia si ripete, nel disperato tentativo di interessare allievi così poco diligenti.
Perché come sempre a Bruxelles si discute, mentre le nostre vite, il nostro futuro, le nostre famiglie, la nostra felicità – vengono espugnate.