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RuvoLibera

Il Paese che scompare

4 Aprile 2012
In gita di piacere a Trani, al Palazzo di Giustizia, per i noti motivi…
 
Un mattino di fine marzo, più o meno le 10. 
Voglio la copia del “mio” fascicolo (una dozzina di pagine)? Ci vogliono 2 giorni. Eccheccacchio, penso: le copiate mica a mano
 
 
Ma mentre cerco una formula più elegante per dirlo (e intanto, per riempire il vuoto, mi lascio scappare un classico “scusi non ci sarebbe un altro modo? sa, vengo da fuori…“) la signora cui sono arrivato dopo un lungo rimpallo tra un ufficio e l’altro, mi precede: con un sovrapprezzo di 10 euro (15 in tutto) le si può avere “con urgenza“. Cioè, dopo un’ora. Tu che avresti fatto, Lettore? Anch’io. Però non è vero che la Giustizia è uguale per tutti. Anche avere 10 euro in tasca aiuta…
Sulle prime la prospettiva mi ha angosciato: “e mo’ che faccio tutta un’ora?” Ma – mi sono detto – sono pur sempre in una delle più belle cittadine d’Italia ed ho a portata di mano il mio fido telefonino. Cosa chiedere di più?
 
Così mi avventuro nei vicoli e nelle vie e piazze alle spalle del Palazzo – una zona che, in una Trani che conosco bene, mi era finora sostanzialmente sfuggita.
 
Un incontro che immagino piacevole. E che si dimostra sconvolgente. La Trani che incontro è triste e cadente, dismessa, mal curata. Una città bombardata dalla Storia, in attesa del ritorno della popolazione fuggita. 
 
Le vie sono quasi deserte. Le case spesso abbandonate a se stesse. Molti bar chiusi. Nel senso definitivo del termine. Insegne (probabilmente un tempo tempio della movida) che presidiano stancamente locali svuotati e sventrati della vita.
 
Un gigantesco, corale, universale “vorrei ma non posso” scritto quotidianamente su quasi tutti i muri.
 
Ogni tanto un palazzo lindo e ben tenuto, e allora non puoi sbagliare: appartiene alla Chiesa, o allo Stato. Colonne di un Medioevo che qui, da noi, non è mai del tutto passato. E forse neanche per la maggior parte.
 
Se poi vedi un piccolo portone ben tenuto, come paracadutato o cascato per caso in mezzo alle macerie dell’abbandono, neanche lì puoi sbagliare: è un bed&breakfast. Ne conto sei in pochi isolati. Un record, credo.
 
Ogni tanto, miracolosamente, un angolo della Trani che mi aspettavo. Del celebrato paradiso mediterraneo, culla antica di diritto e di civiltà marinara. Un albero ancora spoglio, ma perfettamente integrato in un vicolo a piazzetta, a sua volta specchio di una città insieme brillante e cadente, colorata e triste. In primavera inoltrata, probabilmente, quest’albero sarà una magnificenza, e tutto il vicolo ne prenderà vita. Un buon motivo per tornare.

 

 Le strade sono sempre deserte. Sembrano quasi coperte da una neve invisibile, che conferisce loro un effetto di distanza. Due passanti in fondo alla via appaiono sperdute come vecchiette al crocicchio di un pendio innevato.


Archi che introducono al silenzio e alla meditazione, più che allo scambio e al transito per cui sono stati pensati.


Per i vicoli non c’è anima viva. Eccetto qualche anziano che apre il suo garage per coltivare il suo hobby, forse, o cercare un arrotondamento alla magra pensione. Su porte e vetrine un’esplosione di vendesi e affittasi, non meno che su case e balconi.

Tra i vicoli che scendono al mare non c’è altro segno di attività. Risalendo il corso del tempo, non è difficile immaginarli pieni di vita, di monelli scalzi e con l’occhio vispo, che oggi probabilmente lavorano al nord.

Sono i loro figli, a mancare. È la loro voce, che non riempie più quei vicoli. È il Sud che scompare. È questo il muto messaggio di questa città un tempo gloriosa, ancora bellissima ma senza prospettive come tutto il contesto di cui una volta era una delle regine.

La Porta Aurea. Un ingresso altisonante verso il silenzio.



Qua e là, piccole aperture verso paradisi immaginari – che è sempre bene non attraversare. Perché la parte più bella dell’immaginazione è l’inizio, il sogno. La fine, è sempre e solo semplice realtà. Porte chiuse e panni stesi.



Tra uno scorcio e l’altro, una Trani che ha perso vita e smalto, ma non del tutto la bellezza. Come dire, la classe non è acqua. E rimane peraltro senza gloria la perizia del fotografo, armato solo di telefonino, che non ama i ritocchi con Photoshop, ma che pure deve inquadrare la splendida chiesa senza far vedere il camion di materiali edilizi e i muratori che stanno lavorando a pochi passi dalla facciata…;-) 


E dopo la chiesa il mare. L’ora meno adatta per fare le foto. La baia e il porto letteralmente inondati di luce che riverbera, assedia l’obbiettivo digitale, espugna facilmente il piccolo diaframma intontito. 

Cerco l’inquadratura perfetta e la trovo, tra due pescherecci che si baciano. E non importa se il lettore dovrà cliccare e zoomare per scoprire la dotta assemblea dei gabbiani a circolo, nell’acqua. La meraviglia c’è sempre, per chi ha voglia di scoprirla.

 
Così come nessuno zoom può rendere il vocìo delle decine di bancarelle di pesce, l’unica cosa realmente animata di questa mattina surreale. L’enorme gomena in cui rischio di incespicare mentre traffico con i pulsanti. L’odore del pesce che arriva e attira i buongustai come i tre signori in foto.
 


Io sono più attratto dal retro della Cattedrale. Intravedo un passaggio e mi ci dirigo. La prenderò alle spalle, quando non se l’aspetta. Quando e dove non è pronta a riceverti con l’abbagliante e irresistibile sorriso del frontale.

 
 


In questo bel palazzo imbandierato c’è l’ordine dei Notai. A proposito di corporazioni che non passano e che prosperano…


Subito dopo, sulla stessa via che conduce alla maestà del duomo, ecco questo Caffé e Bookshop. Che pretesa, al giorno d’oggi, vendere libri e cultura…

Infatti è chiuso. Definitivamente. Svuotato. Sprangato. Mi avvicino al vetro incuriosito per vedere cosa c’è dentro e rimango di sale. Un incontro incredibile
 
Dentro, nel nulla più assoluto, chiuso e prigioniero, c’è un uomo. Come ha fatto ad arrivare lì, visto che non ci sono altre entrate? E perché non chiede aiuto?
 

Anzi, pare calmo quanto me. Mi guarda senza dire nulla, con la mia stessa curiosità.
Un po’ in là negli anni, con l’aria perennemente da turista, di uno che non è del posto da nessuna parte.

Poi mi scuoto e capisco. Quel prigioniero sono io, riflesso nella vetrina. E l’anima, che ha sempre diciott’anni, ci mette sempre un po’ a riconoscersi in un viso istoriato dal tempo.


Subito dopo un vicolo rimesso a nuovo, ma neanche tanto. Siamo a pochi metri dalla cattedrale. Se mi sdraiassi potrei quasi toccarla. Che ci fa quella pianta in mezzo alla carreggiata? Fermare il traffico? Annunciare la primavera? Parlare d’amore con l’altra pianta, prigioniera sul tetto di fronte?

 


E poi eccola lì, la meta inevitabile. Bella da togliere il fiato. Senza dubbio, la cattedrale più sexy del mondo, con quella lingerie di pietra sempre sul punto di cadere e di scoprire

Bellissima, alta e slanciata, sospesa tra cielo e mare: la fotomodella di Dio, una réclame dell’eternità.

Divinamente indifferente alla scomparsa del suo popolo, pezzo per pezzo, divorato dall’ennesima “crisi” e di nuovo costretto all’esodo. Forse un esodo verso il nulla, perché anche il resto del Paese, dell’Europa, dell’Occidente è terra che scompare.

Indifferente alla crisi delle vocazioni, alla Chiesa che muore – troppo impegnata ad occuparsi di politica e finanziamenti.

Indifferente al destino di un popolo che perde ogni giorno i suoi figli migliori, un’emorragia lunga 151 anni e che non accenna a smettere. Figli che dona magari a multinazionali che hanno come oggetto sociale di continuare a sfruttare la terra e la gente dei loro padri. 

Un popolo dove rimangono le seconde e terze file, a tirare il carretto, a soffrire e mugugnare, a cercare di reggere il peso di una società governata dai peggiori, dalle penultime e ultime file. 

Da coloro per i quali ciò che ha valore ha forma di poltrona o di appalto, di macchinone e di apparire ciò che non si è. E per i quali la dignità della vita umana o la felicità sociale sono bestemmie da punire, anche con la violenza.

Lei, la bellissima, scivola e passa avanti, nel suo surf immutabile a picco sulla scogliera. 

Non le importa neanche di essere sempre più set di matrimoni e spot pubblicitari. 

Conserva semplicemente il suo tesoro, il suo nucleo sacro; no, non le reliquie o la paccottiglia dorata, ma quell’inestricabile intreccio di gioie e dolori – ciò che chiamiamo vita; che vengono qui a consacrarsi, a chiedere di esistere per sempre.

Lei sa che è questo carico a conferirle il passaporto speciale per Dio – e non si cura d’altro, nella sua corsa infinita verso il tempo che non ha tempo.

Sulla sua destra, proprio a ridosso del mare, ecco un enorme insetto di metallo, con antenne gigantesche. Il pullmino di una televisione nazionale. 

Con tanto di costosissima telecamera su treppiede, all’aperto e allo scoperto, senza assolutamente nessuno che sorvegli, né che la insidi. Un’altra immagine surreale, che testimonia della mancanza di pericoli, per semplice effetto della mancanza di persone, e soprattutto di bambini.
Sulla fiancata lo slogan: “Obbiettività 24 ore su 24“. Senza dubbio, la battuta migliore della giornata…;-)

Poi il cerchio si chiude. Di fronte, con la sua cinquecentesca mole simmetrica, il Palazzo di Giustizia. Forse il Palazzo delle Illusioni, che speriamo diventino ogni tanto realtà, non solo Delusioni. 

L’unico posto realmente brulicante di vita in tutta questa parte di città. Più del porto. Il classico testimone del passaggio da un’economia primaria ad una dei servizi. La più grande industria cittadina, immagino. Prima si pescavano pesci. Ora, cause. E va sempre meglio.

 

Mi capita di passare ben tre volte sotto il metal detector. E squilla sempre. La prima all’inizio. Poi quando torno. Infine quando ri-salgo perché nel Palazzo non si paga col denaro: bisogna ri-uscire a comprare la marca da bollo. Almeno la facciata, come quella del Palazzo, è salva e pulita. Il resto, lo speriamo tutti.

Sono lì, uno di fronte all’altro. Palazzo e Cattedrale. In nessun altro posto sono così vicini, così distanti. Così simbolici. Chiesa e Stato. O quel che ne rimane.

Al suo interno un via vai indeterminato, avvocati alle prime armi e principi del foro, praticanti e magistrati, carabinieri e security, giustizieri e gente in attesa di giustizia. Ma la maggior parte sono impiegati in pieno tran tran. Business as usual.

Buttati sulle panchine ritrovi gli stessi a cui, fuori, hai chiesto un’informazione – con la cartella da uomo di legge a tracolla. Nei discorsi captati di passaggio c’è la solita, fin troppa, umanità. “Ah, si sposa?“, oppure il superclassico: “eh sì, con questo tempo non sai mai come vestirti.

Ragazzi e ragazze come tutti, qualcuna in tailleur/minigonna speranzosa, ma resa seriosa dai castigati collant a maglia, rigorosamente abbinati, e dalla imprescindibile borsa professionale – quel luogo misterioso che custodisce uno dei segreti più nascosti: la capacità degli scontri della vita, di diventare carte.

Ragazzi e ragazze come tanti. Ma che, varcata la soglia di quell’aula al cui ingresso si affollano, hanno davanti a se nientemeno che il compito di realizzare la (o almeno un po’ di) Giustizia. Se fosse.

Ma i loro sguardi e il loro trascinarsi raccontano tutta un’altra storia. Vi si legge il disincanto. La routine che schiaccia l’entusiasmo. La solita ruota che stritola i più deboli. Le illusioni di Giustizia che diventano disillusioni. Al massimo, in qualche sguardo frettoloso, si legge l’affare per i più furbi e figli di buona donna. Il resto è tutto un lamento silenzioso dell’esercito dei Cavalieri della Giustizia improvvisamente scopertisi don Chisciotte, nel paese dei mulini a vento.

Il metal detector, dicevo, squilla ogni volta che mi vede. E devo ogni volta armeggiare  tra orologio, chiavi, telefonini, sotto lo sguardo divenuto comprensivo del giovane e possente finanziere di guardia. 

Ma la prima volta no. Ha guardato a lungo con aria sospettosa il mio corpulento orologio di plastica. “Non può essere questo!” ha detto scuotendo il capo. Poi ha visto gli inserti di metallo del cinturino e si è rasserenato.  

Ma nulla in confronto all’agente penitenziario che mi vede, sperduto al piano interrato dove sono capitato cercando l’uscita per comprare la marca da bollo. 

Imperturbabile, mentre sorveglia la cella di detenzione del Tribunale, mi indica col braccio di tornare indietro/su e aggiunge: “deve risalire. Lì ogni direzione è Uscita.” 

Ringrazio, ma se era così semplice perché sono finito lì? E, soprattutto, perché lui ci era così abituato? Come se fossi il centesimo della giornata? 

Non so perché ma così, a pelle, mi vien di pensare che un Palazzo di Giustizia dovrebbe avere i percorsi segnati più chiaramente. Ma forse, come al solito, chiedo troppo.


Infine il Castello Svevo. La sua sfida al mare. Il bastione di guardia verso nemici che non arrivano più, da secoli. E se arrivano, arrivano dall’interno. L’altra gamba dello Stato, ormai diventata gamba di legno, finta, buona per raccogliere le firme degli amici e dei visitatori. Un po’ degradato un po’ riciclato a sede di “eventi“. 

Chiedo ai due custodi come si fa per prenotarlo, e la donna tra i due, gentilissima, si affanna ad andare nell’altra stanza, strappa da qualche parte un pezzo di cartoncino e mi segna due nomi e numeri di telefono. Mi spiega che bisogna rivolgersi alla Soprintendenza, a Bari.

Eccerto, c’è sempre una Soprintendenza da qualche parte. C’è sempre una burocrazia che sovrasta. E intanto chi sta a contatto col pubblico non ha nemmeno un biglietto da visita da distribuire. Benvenuti in Italia. Il più grande patrimonio artistico al mondo. E la più piccola capacità di valorizzarlo. Se pure di capacità si possa parlare.

In compenso siamo i primi per le soprintendenze, per le burocrazie, per le corporazioni parassitarie e per tutto il resto che è inutile citare perché il Lettore ha capito benissimo.

 


Il Castello di Trani ha lo strano destino di essere messo in secondo piano da quelli, più imponenti, di Bari o Barletta; e letteralmente oscurato (con gli altri) dalla meraviglia misteriosa di Castel del Monte.

Così eccolo, aristocratico e plebeo, umile e forte, che sfanga la sua giornata buttato lì, travolto dalla quotidianità, sepolto nel traffico – mentre nel suo retro, con i suoi potenti bastioni, silenzioso come i veri eroi, continua la sua lotta millenaria contro il mare. Mentre tutto intorno, pezzo per pezzo, scompare.

mario albrizio

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