Non è semplice definire cosa sia cultura e cosa non lo sia. Quando una persona può definirsi colta? Secondo me quando sa come vivere, quindi sa perché vive. In questo senso parliamo di cultura della vita. So come si vive. Vivi e lascia vivere ne è la determinazione.
Vi è poi la cultura come bagaglio di saperi, conoscenze, informazioni. La cultura dell’intellettuale può tornare utile alla vita come può non essere utile, cioè essere nescienza. Ad esempio, che io sappia di cosa sono formate le galassie non toglie né aggiunge nulla alla mia vita. Se lo so, bene. Se non lo so, idem. Tutt’al più sarò preso
per ignorante da una contenuta schiera di cultori della materia.
per ignorante da una contenuta schiera di cultori della materia.
La cultura come formazione intellettuale è propria di una élite, tant’è vero che negli anni 70 del precedente secolo si è parlato finanche di intellettuale organico per indicare il colto che faceva da sponda all’ideologia politica. Un intellettuale o un servo sciocco? Ed un servo sciocco, per quanto florido di letture e conoscenze, può dirsi colto? Oppure è colto l’intellettuale che non serve nessuno e che risponde unicamente a se stesso, rendendo un servizio alla verità?
Cultura quindi come espressione di libertà, di autonomia del sapere che fa il paio con la sapienza del vivere. Questa commistione fra libertà, sapienza e vita è quella che sento più vicina alla mia personale esperienza di uomo che coltiva la sua mente e che ricerca il vero, il bello, il buono, il giusto, il sano.
Obiettivo supremo della cultura è, in una prospettiva più ampia, far crescere la coscienza comune, senza collettivizzarla o condizionarne il libero svolgimento. La persona di cultura non fa della propria cultura un potere, ma ne fa strumento di elevazione etica partendo dal proprio vissuto morale, dal proprio costume interiore.
Ma come si giudica la bontà di una cultura, se cioè essa ha dato frutti o è stata puro spargimento di vanità e vacuità ed intellettualismi solipsistici? La si giudica dai suoi effetti a medio e lungo termine.
Se, dopo aver seminato cultura, la società si mostra, dopo un certo tempo, ancora ferma al palo della stanchezza e dell’inerzia; se, dopo aver prodotto estati ruvesi e aver partorito cento giorni di “eventi”, ci si dovesse accorgere che la crosta dell’indifferenza non è stata punto scalfita e che nessun ricordo significativo si ha di essi, allora si dovrebbe prendere atto che non di cultura si è trattato, ma di altro.
Siamo nell’epoca del hard cover, per cui non mi sorprende più di tanto che le cover band spopolino mentre il pubblico si contrae. C’è però che le cover band non producono cultura musicale. E la cover è pur sempre un inganno, una finzione, un ripiegamento: non potendo avere l’originale, si ripiega su qualcosa che vagamente gli assomigli.
La cultura musicale è altro. Potrebbe esserne epifania il Talos Festival, ben che vada, sebbene sia perplesso sulla riesumazione di una kermesse che precorse i tempi e che oggi rischia di subire i contraccolpi dell’inflazione jazzistica. Poiché non sono disfattista, mi auguro di sbagliarmi e che abbia successo di pubblico e che ne resti traccia nelle corde intime di chi vi assisterà.
Ora, il programma dei cento giorni dell’estate ruvese è tuttavia poco competitivo ed appetibile sotto il profilo culturale. Credo sia un dato oggettivo, difficilmente confutabile.
Apprezzo gli sforzi degli organizzatori, però a rigore non possiamo mettere sullo stesso piano una pièce teatrale e l’esibizione di una cover band o di un dj per pochi intimi. Lo stesso termine “evento” richiama qualcosa di sostanzioso, corposo, unico, raro, faticosamente ripetibile. E resta sempre centrale definire cosa è cultura e cosa non lo è né può aspirare ad esserlo.
Personalmente sono per il poco ma buono. Se invece di cento giorni ce ne fossero stati tre o quattro ma buoni, cioè di spessore, me ne sarei rallegrato.
Ora non ci resta che attendere che i cento giorni si concludano e che si apra una nuova stagione di riflessione che veda riuniti attorno ad un tavolo soggetti economici e non economici, soprattutto questi ultimi, i quali in linea di principio non sono condizionati dai bilanci ma dalla qualità, e sempre che sappiano rinunciare alla difesa del proprio orticello e guardare lontano.
Salvatore Bernocco