Skip to content
RuvoLibera

I GATTOCOMUNISTI E I CANIFASCISTI

2 Gennaio 2015



Saltiamo i preamboli e andiamo subito al punto, spiegando per sommi capi cosa si intende per «cattocomunista», termine largamente usato (ed abusato) negli anni settanta del precedente secolo, definito «breve» sebbene sia durato, come tutti i secoli, cent’anni. A questo proposito, rammento che «Il secolo breve» (sottotitolo: 1914-1991) è un voluminoso saggio dello storico britannico Eric J. Hobsbawm, che analizza le svolte storiche di un secolo – il ventesimo – la cui estensione temporale può essere racchiusa in due date: 1914 1991. In realtà il titolo originale dell’opera di Hobsbawm non è «Il secolo breve», bensì «Il secolo degli estremi» («The age of extremes»).
Molti intellettuali di sinistra e di destra si sono poi lanciati a peso morto sull’espressione, vi si sono spiaccicati sopra, mostrando ancora una volta una spiccata propensione alla dipendenza culturale e all’omologazione del pensiero.
Destra e sinistra, squassate le ideologie, pari sono. Chi oggi non disquisisce, ad esempio, di società liquida o di amore liquido, riecheggiando le teorie sociologiche di Zygmunt Bauman? Lo fa la quasi totalità dei pensatori, anche se, con tutto il rispetto per le tesi di Bauman, io mi spingerei oltre, parlando di società gassosa o di amore gassoso. E di un tipo particolare di gas, i gas criogenici che, usati per realizzare macchine frigorifere, consentono di arrivare a una refrigerazione a temperatura inferiore ai -160° C. Società e amori, quindi, che, a seconda dei punti di vista e delle riflessioni, si disperdono nei tombini del tempo o evaporano o si congelano in un sentimento algido nell’attesa che qualcosa muti.
Qualcosa di simile accadde nella nostra Diocesi, guidata all’epoca da un indimenticato don Tonino Bello, di felice memoria. Don Tonino aveva una sensibilità poetica e letteraria eccezionale. Così, di tanto in tanto usava termini inconsueti nei suoi scritti o nelle sue omelie, quali, ad esempio, «sesquipedale», che non attiene ad un tipo di velocipede, e «in sedicesimo». Non c’è da pedalare o da fare di conto, ma da informarsi. Così, se «sesquipedale» vuol dire «enorme, smisurato, madornale; propriamente, lungo un piede e mezzo (dal latino: sesquipedalis, composto da “sesqui”, contrazione di “semisque”, mezzo in più, e “pedalis”, piede)», «in sedicesimo» si riferisce a «persona o cosa di dimensioni ridotte o di mediocre valore». Quindi, «sesquipedale» e «in sedicesimo» sono antagonisti, seppure sia ben noto che ciò che è enorme può essere di infimo valore morale o materiale.
Ora, don Tonino aveva un corteo di imitatori ed emulatori (e di adulatori). Appena lanciava una nuova parola, costoro facevano a gara a chi la rilanciasse per primo, come se dovessero vantare una sorta di primazia dinanzi al Vescovo. Per molto tempo nei loro scritti non mancò un sesquipedale qui e un “in sedicesimo” là, con che dimostrando poca capacità di differenziazione ed un appiattimento rivelatori di un sentimento cortigiano, adulatorio. Venuto a mancare don Tonino, gli adulatori del suo lessico cessarono di sesquipedalare, mi si passi il termine, rendendo un grande servigio al popolo dei fedeli e ai loro scarsi lettori.     
Torniamo ai cattocomunisti. In sintesi, il termine designa, nel panorama filosofico e politico italiano, «l’insieme di quei pensatori, religiosi e politici,  che, pur essendo di dichiarata fede cattolica, optarono per una scelta politica e programmatica vicina alle posizioni comuniste, accettando, senza tuttavia aderirvi completamente, gran parte del pensiero marxista. […] Largamente diffuso nella pubblicistica politica a partire dagli anni settanta (e con un significato prevalentemente spregiativo per i detrattori) è servito a indicare il processo di avvicinamento tra Partito Comunista (P.C.I.) e Democrazia Cristiana (D.C.) nell’ambito della strategia berlingueriana e morotea del compromesso storico. […] Oggi il termine cattocomunista è ancora utilizzato per definire gli esponenti della sinistra D.C. (alcuni dei quali vicini al pensiero dossettiano e delle esperienze di don Milani), confluiti prevalentemente prima in Democrazia è Libertà – La Margherita, e poi nel Partito Democratico».
Il termine è ancora oggi carico di valenze negative. Apostrofare qualcuno come cattocomunista significa offenderlo in qualche modo, volendo sottolineare tutte le contraddizioni della sua visione politica che mette insieme il diavolo e l’acquasanta. Come si può essere cattolici e fare l’occhiolino agli orfani di Marx? È una bella domanda. Rosy Bindi, l’ex pasionaria sdraiatasi sul comodo giaciglio unideologico del potere da moltissimi anni, definì il cattocomunismo «la cosa più trendy del momento!» (ancora la cosa!), con che facendolo apparire un fenomeno modaiolo piuttosto che un tentativo di conciliare gli opposti.
Essere cattocomunista era tanto chic.
Nei salotti buoni ci entravano solo quelli dichiaratamente cattocomunisti, gli intellettuali cattolici e quelli di sinistra che gareggiavano a chi fosse più audace nelle sintesi astruse. Diciamo che questa corrente si è andata via via esaurendo malgrado che non si siano tuttora esauriti i suoi effetti a lungo termine. Oggi, che si è più pragmatici e meno teorizzatori, si è andata affermando questa ricapitolazione plastica del cattocomunista: «è una persona che ha idee di sinistra, il portafoglio a destra ed è un assiduo frequentatore di ambienti ecclesiastici». Il portafoglio, il denaro, ha fatto molti proseliti fra i comunisti, convertendoli non al cattolicesimo ma al capitalismo che sbeffeggiavano e condannavano. I tempi sono decisamente cambiati, oppure sono sempre gli stessi; gli ingranaggi dell’umanità sono sempre stati unti dall’olio del dio denaro.  


Ma che c’entrano i gatti con i comunisti? C’entrano, e non per quel Mao (Tse-tung), noto in Cina come il “Quattro volte grande”: “Grande Maestro, Grande Capo, Grande Comandante Supremo, Grande Timoniere”, e che assomiglia tanto ad un miagolio. C’entrano a causa di un consigliere comunale ruvese che, tempo addietro, nel corso di un dibattito piuttosto concitato e di elevato livello culturale, forse perché esasperato o sfrucugliato, proferì le seguenti parole: «Se noi, egregi consiglieri dell’opposizione, siamo gattocomunisti, ebbene, voi siete canifascisti!».
Proprio così: gattocomunisti e canifascisti. L’ilarità fu generale e stemperò il clima arroventato. Il nostro eroe arrossì e, per quanto ne so, da allora in poi evitò di intervenire in Consiglio Comunale. La sinistra, per definizione, è composta di gente colta, non di ignoranti che mischiano cani e gatti con la politica; non ci si può permettere simili figuracce.
Quel signore – gaffe sul cattocomunismo a parte – non avrebbe sbagliato e avrebbe fatto un figurone se avesse accusato l’opposizione di destra di clericofascismo, «posizione che riassume orientamenti ideologici di impronta clericale e fascista».        
Conclusione: lasciamo in pace gli animali d’affezione, non gettiamoli nell’arena politica, dove verrebbero sbranati.
E, per quanto concerne voi politici o aspiranti tali, fate come Vittorio Alfieri che, dopo una giovinezza inquieta ed errabonda, si dedicò con impegno alla lettura e allo studio, lui di Plutarco, Dante, Petrarca, Machiavelli e degli illuministi come Voltaire e Montesquieu, voi di autori a noi più coevi. Niccolò Machiavelli però va ancora per la maggiore per via del suo libro «Il Principe» (titolo originale in lingua latina: De Principatibus, lett. «Sui Principati»), trattato di dottrina politica scritto nel 1513, nel quale espone le caratteristiche dei principati e dei metodi per mantenerli e conquistarli.
Mutatis mutandis, i suoi metodi sono applicabili anche ai giorni nostri. Le caratteristiche del principe ideale sono, in sintesi:
  1. la disponibilità ad imitare il comportamento di grandi uomini a lui contemporanei o del passato, ad esempio quelli dell’antica Roma;
  2. la capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo, illustrando ad esempio le conseguenze di un’oclocrazia, “[letter. – governo della plebe, predominio politico della massa; il termine greco è attestato per la prima volta in Polibio, dove indica una forma degenerata di democrazia (Treccani)];
  3. il comando sull’arte della guerra, per la sopravvivenza dello Stato;
  4. la capacità di comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere stabilità e potere;
  5. la prudenza;
  6. la saggezza di cercare consigli soltanto quando è necessario;
  7. la capacità di essere “simulatore e gran dissimulatore”;
  8. il rilevante potere di controllo della fortuna attraverso la virtù (la metafora utilizzata accosta la fortuna ad un fiume, che deve essere contenuto dagli argini della virtù);
  9. la capacità di essere leone, volpe e centauro (il leone simboleggia la forza, la volpe l’astuzia, mentre il centauro indica la capacità di usare la forza come gli animali e la ragione come l’uomo).
Com’è facile constatare, la commistione fra animale ed uomo si può dare nel mito del centauro, mentre non si può dare l’intreccio fra animale e politico, essendo quest’ultimo – tranne le dovute ed immancabili eccezioni che confermano la regola – privo di forza, se non quella che gli viene dalla prepotenza, e spesso pure privo di ragione.
Il politico quindi non sarebbe un uomo? Qui calza a pennello Diogene di Sinope, alias il Cinico o il Socrate pazzo, di cui si narra che una volta uscì con una lanterna di giorno e, alla domanda su che cosa stesse facendo, rispose: «Cerco l’uomo!», intendendo «un uomo onesto».
A buon intenditori poche parole.   
Salvatore Bernocco