Le autorità accolte a Palermo tra urla, monetine e insulti
La rabbia dei poliziotti, il disgusto dei giudici
“Vergogna, vergogna
assassini!”
La vedova di un agente: “Presidente Spadolini, chiedo vendetta”.
Applausi a Tano Grasso e a Giuseppe Ayala
di GIUSEPPE D’AVANZO
PALERMO – La Repubblica italiana a Palermo è morta. E’ morta in un giorno appiccicoso nello spettrale androne di marmo del Palazzo di Giustizia seppellita dagli sputi, dagli insulti, dalla pioggia di monetine, dal grido “Assassini”, dal coro “Mafiosi” che, come un selvaggio scirocco, ha investito tutti coloro che – piccoli o grandi, colpevoli, complici o innocenti (ma esistono innocenti?) – si sono avventurati in nome del Popolo italiano nella camera ardente di Palermo.
La Repubblica italiana è morta accompagnata dalle urla dei poliziotti, dal disgusto dei magistrati. E’ morta dinanzi a cinque bare con bandiera tricolore sistemate su trespoli al termine di una guida rossa lisa, sfilacciata qui, sforacchiata là.C’è il cappello blu della polizia sui feretri di Rocco Di Cillo, Antonio Molinari, Vito Schisano, il berretto e la toga rossa e nera dei giudici di Stato sulle bare di Francesca Morvillo e Giovanni Falcone. La Repubblica italiana a Palermo non è morta di rabbia, non è morta di furore, non è morta di vergogna. E’ morta nell’indifferenza (“Chi muore giace, chi vive si dà pace”) di una città assente fuori dalla camera ardente. E’ morta del disprezzo – un disprezzo cupo, solido, senza speranza – che ha accolto i poveri cristi e le facce di pietra venute a Palermo in nome della Repubblica italiana.
Era un povero cristo Giovanni Spadolini, presidente della Repubblica supplente, quando alle 13,25 ha fatto il suo ingresso nel Palazzo. Nella camera ardente quanta gente c’era? Cinquecento, seicento, forse mille persone. Erano molti i poliziotti, molte le madri, le mogli, le giovani donne dei poliziotti, c’erano i magistrati, c’era la solita piccolissima Palermo degli onesti. Quella piccolissima Palermo che ha cominciato nel 1979 ad andare ai funerali. E Giuliano e Costa e Terranova e Mattarella e Basile e Chinnici e La Torre e dalla Chiesa e d’Aleo. Dodici anni dopo è sempre la stessa piccolissima Palermo dalla faccia pulita. Sempre la stessa. Con qualche capello bianco in più, con accanto un figlio diventato adulto o un figlio diventato padre, a sua volta. Con lo stesso dolore nel petto, ma gli occhi definitivamente asciutti.
Non più disperata (anche la disperazione è un lusso a Palermo). Questa risicata fetta di città è semplicemente disgustata. Ed è un grido di disgusto che accoglie Giovanni Spadolini che apre il corteo delle autorità. C’è il ministro della Giustizia, Claudio Martelli; il ministro degli Interni, Vincenzo Scotti. Hanno il volto impietrito e cereo. Sono loro che hanno creduto in Giovanni Falcone, nella sua intelligenza, nella sua capacità di dare corpo ad una nuova strategia giudiziaria e investigativa. Eppure toccano a loro le monetine, le urla, gli spintoni. Alle loro spalle, serrano le file il segretario generale del Quirinale Sergio Berlinguer, i sottosegretari agli Interni e alla Giustizia, il capo della Polizia, i comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, il capo dei servizi segreti e il vicesegretario della Dc, Sergio Mattarella, il vicesegretario del Csm Giovanni Galloni, una Vincenza Bono Parrino presente chi lo sa perché (subito si cruccia: “Qua è il finimondo, lo sapevo che non dovevo venire”).
E ancora: ci sono i consiglieri di Palermo, il sindaco Domenico Lo Vasco in fascia tricolore, le gerarchie giudiziarie del Palazzo dei Veleni e dei Palazzi di Roma che in Giovanni Falcone hanno visto sempre lo “straniero”, il “nemico” da umiliare, calunniare, sconfiggere. Sono gli uomini che lo costrinsero ad andar via. Per tutti c’è un solo grido: “Assassini”. “Assassini, assassini”. “Mafiosi, mafiosi”. “Complici, complici”. L’urlo sale, si gonfia dell’eco, si abbatte sul volto di Spadolini, Martelli e Scotti come uno schiaffo, come un pugno.
Gli agenti di polizia che, in lacrime, sono accanto alle bare dei propri tre compagni ondeggiano. C’è chi grida “mafioso” verso il corteo in grigio. C’è chi urla: “Andate via, via di qui. Sono i nostri morti, non i vostri. Andate via di qui. Tornate a Roma, tornate alle vostre tangenti”. C’è un ragazzone del servizio scorte che insegue Galloni per aggredirlo. Gli grida sulla faccia: “Assassino”. Lo trascinano via. Un gruppo di poliziotti fende a gomitate la folla travolgendo ogni cosa. Si impossessano di una, due bare. Si sente dire: “Andiamo via noi, portiamoci i nostri morti in Questura”. E’ il parapiglia. Il feretro di Rocco Di Cillo sale tra facce livide e occhi gonfi di lacrime. “Assassini, assassini”. “Vergogna”.
La scorta del Quirinale si stringe intorno a Spadolini. Lascia scoperti, senza difesa Martelli e Scotti. Stretti l’uno all’altro, dinanzi alla bara di Giovanni Falcone, i due ministri non si difendono, si lasciano trascinare, strattonare, insultare. Non hanno la forza di reagire, forse non vogliono nemmeno reagire. Martelli ha le mani sulla bara di Falcone e così resta fino a quando lo portano via di peso. Giovanni Spadolini si avvicina a Rosaria Schisano. Rosaria ha ventisei anni, una piccola di quattro mesi, è la moglie di Vito. In ospedale ha voluto vedere il corpo del suo uomo. L’hanno implorata di non farlo. Ha risposto: “Voglio dirgli per l’ultima volta: “Ti amerò per sempre”. E lo ha fatto. Ora quel corpo giovane squarciato, dilaniato è la sua ossessione. Ripete: “Era così bello, le sue gambe erano così belle. Come me lo hanno ridotto, Vito mio”.
Quando Spadolini le si fa accanto e le accarezza il volto, Rosaria smette di piangere e di invocare. Guarda quell’uomo che l’accarezza e la rincuora senza riconoscerlo. Le dicono che è il Presidente. Chi lo sa se Rosaria comprende che è il presidente della Repubblica. Scaccia via i capelli dalla fronte e, con un lampo negli occhi, dice: “Presidente, io voglio sentire una sola parola: lo vendicheremo. Se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola”. Spadolini si guarda intorno smarrito, non trova le parole. Si allontana in silenzio seguito da una scorta scomposta. Dietro di lui rapidamente si raggruppa il corteo inseguito ancora dalle urla: “Assassini, mafiosi”. Il corteo si schiaccia in un corridoio laterale. In fretta guadagna – in ascensore, su per le scale – il primo piano e la salvezza. Sono le 13 e 55 e la Repubblica italiana è morta.
Non c’ è nessuno, quasi nessuno, in quel Palazzo di Giustizia che vuole rappresentarla, che se ne sente figlio. Non sono i poliziotti. Si alternano intorno alle bare dei compagni spalla a spalla. Piangono. Dicono: “Siamo inutile carne da macello di una Repubblica senza dignità”. Non si sentono figli della Repubblica, di questa Repubblica, i magistrati. I magistrati, che chiudono sempre gli occhi e voltano sempre lo sguardo, non lo sono mai stati. I magistrati che hanno gli occhi aperti e possono misurare soltanto la loro impotenza volevano esserlo, ma oggi si sentono definitivamente sconfitti.
E’ uno di questi che dice – è giudice per le indagini preliminari a Sciacca -: “Non tutti hanno il diritto di piangere Giovanni e Francesca. Che c’entra qui, dinanzi a questi morti, quel consigliere comunale condannato per reati contro la pubblica amministrazione? Che diritto ha per restare qui con noi quel sottosegretario del quale si conoscono le amicizie e il lezzo dei voti che raccoglie? Che diritto ho io di illudere la gente che esiste la Giustizia quando, quattro gatti come siamo, nemmeno la più ordinaria delle attività riusciamo a garantire. No, questa è la loro Repubblica, queste sono le loro regole…”.
Gli amici di Falcone, quei compagni di lavoro e di vita che gli hanno regalato, diceva, “la più esaltante stagione della sua esistenza” tacciono. Inorriditi dalla morte di Giovanni, inorriditi dalla retorica del rito pubblico, inorriditi da quelle urla che non hanno risparmiato i morti nelle bare. Tace Paolo Borsellino, “l’amico fraterno”, il “fratello maggiore” di Falcone. E’ immobile in un angolo. Ha gli occhi fissi sulla bara, un’espressione irrigidita sul volto che si ha paura a pensare quando si scioglierà. Tace Giuseppe Ayala, il “fratello minore”, intelligente e scapestrato, ora parlamentare. A lui la piccolissima Palermo degli onesti regala un applauso quando qualcuno gli grida: “Ayala torna a fare il giudice”. E’ uno dei due applausi, se si escludono quelli rivolti ai feretri, che risuonano nello spettrale androne del Palazzo dei Veleni. L’altro sarà riservato a Tano Grasso, il commerciante di Capo d’Orlando divenuto leader antiracket per necessità.
Tano Grasso se ne sta da solo con lo sguardo pensieroso. Ragiona: “Le prossime ore saranno decisive per capire se c’è o non c’è una prospettiva di battere la mafia. Con la morte di Falcone hanno voluto dirci che nessuno può sentirsi sicuro. Per Libero Grassi si disse, dicemmo: era senza difesa, senza scorta, era solo. Giovanni Falcone, invece, era difeso come meglio non si poteva ed è morto lo stesso. Dunque, dalla mafia non ci si difende militarmente. Ci si difende soltanto se la società, noi siciliani, la gente la isoleremo. Se anche questo delitto affogherà nella indifferenza, sarà meglio tornare tutti a casa, non parlare più di antimafia, sarà meglio non farsi più illusioni, sarà meglio abituarci a pensare che questa è una Repubblica governata e abitata dai mafiosi e dagli amici dei mafiosi”. Quando Tano Grasso si allontana è pomeriggio. Lo accompagna un applauso e un grido: “Tano resisti”.
(25 maggio 1992)
grazie a
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