Il prossimo 16 marzo ricorre il 37° anniversario del rapimento dell’on. Aldo Moro e della barbara uccisione degli uomini della sua scorta: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino in via Fani a Roma, da parte di una squadra delle cosiddette Brigate Rosse, il cui coinvolgimento è tuttora ammantato da sospetti ed illazioni su cui sta lavorando l’ennesima Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro dell’on. Moro, presidente Beppe Fioroni.
Erano circa le ore 9.00 di un giovedì qualsiasi destinato, però, a mutare il corso degli eventi politici italiani. Da quel 16 marzo 1978 l’Italia non sarebbe stata più la stessa. La politica cambiava direzione di marcia, e dagli equilibri avanzati di matrice morotea si sarebbe fatto un passo indietro, funzionale alla regressione di matrice destrorsa. Il C.A.F., cioè l’accordo fra Craxi, Andreotti e Forlani, avrebbe soppiantato il governo di solidarietà nazionale che prevedeva il coinvolgimento nella maggioranza parlamentare del PCI, a seguito di un accordo difficile ma necessario fra Enrico Berlinguer e Aldo Moro.
Tengo a sottolineare la circostanza che la predetta Commissione bicamerale sia stata costituita dopo la morte di due esponenti della D.C. che, è opinione comune, sapevano probabilmente molte cose e particolari sulle ragioni del sequestro e dell’uccisione del presidente della D.C., avvenuta il 9 maggio 1978, 55 giorni dopo il rapimento.
Mi riferisco a Francesco Cossiga e a Giulio Andreotti, il cui operato in quei nefasti giorni non è mai apparso totalmente limpido e scevro da dubbi. Poco coraggio, quindi, a mio avviso, hanno avuto coloro che hanno pressato per l’istituzione della Commissione, giacché i morti non parlano, non possono più parlare.
È stata un’istituzione tardiva e, come tutto ciò che è tardivo, destinato a naufragare nel dèjà vu? A chi giova oggi la Commissione Moro se non a chi ne fa uso e consumo per ritagliarsi una posizione di prestigio nel Parlamento nazionale, parlandone in convegni da Trieste a Palermo?
Si fece tutto il possibile per salvare la vita di Moro? Oppure il triste destino di Moro era già segnato il 16 marzo, come molti pensano e come io stesso tendo a credere? Il caso Moro rientra a pieno titolo fra i misteri dell’Italia repubblicana. La verità intera sulla vicenda, nonostante gli auspici della Commissione, probabilmente non verrà mai a galla. I dubbi resteranno, si cristallizzeranno, ad onta della giustizia e della politica italiane e dello stesso principio di verità, cardine delle democrazie avanzate.
Con l’assassinio di Moro si volle bloccare il cosiddetto “compromesso storico”, cioè l’accordo programmatico fra DC e PCI, i due più grandi partiti popolari. Vi erano interessi concordanti seppure di diversa provenienza? La morte di Moro faceva comodo tanto agli USA quanto all’URSS? Quale il ruolo dei servizi segreti deviati, di Gladio, nell’assassinio dello Statista, la cui intelligenza politica era raffinata e colta?
Moro parlava spesso di intelligenza degli avvenimenti, di un confronto necessario per costruire una democrazia dell’alternanza, bloccata dall’esistenza del Muro di Berlino, cioè dalla separazione del mondo in due sfere di influenza. Perché nell’alternanza risiede il senso stesso della democrazia, che non sarebbe tale se, per ragioni sociali, culturali, diktat esterni e trame internazionali, un partito fosse condannato a governare e a non sperimentare il ruolo di opposizione che, molte volte, può risultare rigenerante.
Chi sono oggi i morotei? Ce ne sono ancora o il moroteismo è morto con Moro? Non parlo dei morotei di circostanza, di coloro che ne fanno strumento per raccattare qualche voto fra i nostalgici, ma dei morotei che, attingendo alla sua dottrina, vogliono apportare un contributo serio, competente e costruttivo alla realizzazione di una Repubblica in cui i cittadini siano destinatari di diritti e di opportunità di crescita e di sviluppo umani, di una Repubblica fondata sul lavoro e sull’onesta della classe politica, in cui il tasso di corruzione è fra i più alti al mondo.
Un contributo che non può fare a meno del dato culturale e, per l’appunto, di una lettura lungimirante e saggia degli accadimenti, per prevenirli, per assecondarne i moti di libertà e di liberazione, con senso di responsabilità e della prudenza.
Oggi la velocità non consente la riflessione. Oggi va di moda il riformismo spinto, ad oltranza, un riformismo che è destinato a scoordinare e a scardinare l’impianto costituzionale così come immaginato dai Padri costituenti. Sono per le riforme, mentre non sono per la fregola di fare ad ogni costo riforme sull’onda dell’emotività, della fretta dei risultati da dare in pasto all’opinione pubblica.
Per molti versi, e senza conati nostalgici, mi ritengo, con estrema umiltà, un moroteo. Da moroteo stigmatizzo il comportamento di quanti ne strumentalizzano la figura per finalità personali e di notorietà. L’anelito di verità qui non c’entra nulla. C’entrano il logos, il discorso, l’immagine, il potere.
Ma, come si suole dire, talvolta si può ricavare il bene anche dal male. Spero vivamente che nel caso di specie accada di ricavare frammenti di verità sul caso Moro, al quale va il mio commosso ricordo.